Mi sono perso
Storie e Notizie N. 1517
Un misterioso cranio risalente a 6.000 anni fa, ritrovato in Papua Nuova Guinea nel 1929, si pensava appartenesse a una specie umana ormai estinta.
Grazie alle ultime ricerche, gli scienziati ritengono invece che sia di proprietà della più antica vittima di uno Tsunami, perlomeno i cui resti siano stati rinvenuti sino a oggi.
Mi sono perso.
Questo è ciò che ricordo.
Questa è l’unica cosa che so.
Per certa.
Non rammento perché mi trovassi lì, nell’istante in cui il mare mi ha rapito.
Rapito…
Che contraddittorio quanto paradossale uso delle parole facciamo, noi umani, allora, come oggi.
Abitiamo e maltrattiamo, più o meno impunemente, un pianeta che è ricoperto per la gran parte da acqua, e non solo lo chiamiamo terra, ma laddove gli oceani giustamente raggiungano i nostri confini per esigere ciò che gli spetta, e riprendersi il mondo del quale per primi li abbiamo derubati, li consideriamo invasori della nostra pace.
Disturbatori della quieta esistenza.
Nemici dell’umana civiltà.
Eppure, avremmo dovuto aspettarcelo, poiché l’incessante danza dei flutti obbedisce a regola imprescindibile per ogni elemento che consapevolmente, o meno, faccia parte della natura.
Ciò che si allontani da te, o che tu per primo respingi, malgrado sia la vita stessa a reclamar quell’unione, prima o poi tornerà e vorrà tutto.
E l’istante in cui lo comprendi appieno è ormai troppo tardi.
Per me è stato l’abbraccio di forme colori, di onde e un’infinità di blu, come se il cielo stesso mi avesse inghiottito, per farmi stella tra gli astri, lucente finché l’occhio che la scopra abbia ancora voglia di ammirarla.
Sei volte mille anni ci son voluti per dare un nome all’ospite inatteso nel racconto globale.
Nondimeno, nulla pare abbiate aggiunto alla storia in apparenza minore, tranne che le ragioni del decesso.
La fine, solo la fine del viaggio, pare interessare i miei pronipoti.
L’attimo che succede all’ultimo respiro sembra disegno dai contorni più semplici da raffigurare e, forse, è proprio così.
Ciò che non comprendo, però, è l’assoluta mancanza di curiosità per il resto.
Mi riferisco al reale mistero, quello solitamente trascurato da occhi troppo grandi e lancette troppo piccole e frettolose.
Perché ero lì, quel giorno?
C’è stato qualcuno, che non ha mai smesso di cercarmi?
C’è forse qualcuno, che non potrò mai più trovare?
E, soprattutto, ero davvero solo, in quell’ultimo istante concessomi?
Quanto tempo è ormai andato, da allora.
Quanto tempo è stato sprecato e quanto ne stiamo gettando ancora con domande senza risposta e prive di valore.
Salvo arrivare tutti, in un modo o nell’altro, alla medesima conclusione: nulla o poco sappiamo di noi e degli altri.
Eppure, ogni giorno, ci ricopriamo a vicenda di discorsi vani.
Tranne, di rado, per sussurrare l’essenziale.
Mi sono perso.
E ora, grazie a te che mi hai ascoltato.
Ci siamo ritrovati entrambi.
Un misterioso cranio risalente a 6.000 anni fa, ritrovato in Papua Nuova Guinea nel 1929, si pensava appartenesse a una specie umana ormai estinta.
Grazie alle ultime ricerche, gli scienziati ritengono invece che sia di proprietà della più antica vittima di uno Tsunami, perlomeno i cui resti siano stati rinvenuti sino a oggi.
Mi sono perso.
Questo è ciò che ricordo.
Questa è l’unica cosa che so.
Per certa.
Non rammento perché mi trovassi lì, nell’istante in cui il mare mi ha rapito.
Rapito…
Che contraddittorio quanto paradossale uso delle parole facciamo, noi umani, allora, come oggi.
Abitiamo e maltrattiamo, più o meno impunemente, un pianeta che è ricoperto per la gran parte da acqua, e non solo lo chiamiamo terra, ma laddove gli oceani giustamente raggiungano i nostri confini per esigere ciò che gli spetta, e riprendersi il mondo del quale per primi li abbiamo derubati, li consideriamo invasori della nostra pace.
Disturbatori della quieta esistenza.
Nemici dell’umana civiltà.
Eppure, avremmo dovuto aspettarcelo, poiché l’incessante danza dei flutti obbedisce a regola imprescindibile per ogni elemento che consapevolmente, o meno, faccia parte della natura.
Ciò che si allontani da te, o che tu per primo respingi, malgrado sia la vita stessa a reclamar quell’unione, prima o poi tornerà e vorrà tutto.
E l’istante in cui lo comprendi appieno è ormai troppo tardi.
Per me è stato l’abbraccio di forme colori, di onde e un’infinità di blu, come se il cielo stesso mi avesse inghiottito, per farmi stella tra gli astri, lucente finché l’occhio che la scopra abbia ancora voglia di ammirarla.
Sei volte mille anni ci son voluti per dare un nome all’ospite inatteso nel racconto globale.
Nondimeno, nulla pare abbiate aggiunto alla storia in apparenza minore, tranne che le ragioni del decesso.
La fine, solo la fine del viaggio, pare interessare i miei pronipoti.
L’attimo che succede all’ultimo respiro sembra disegno dai contorni più semplici da raffigurare e, forse, è proprio così.
Ciò che non comprendo, però, è l’assoluta mancanza di curiosità per il resto.
Mi riferisco al reale mistero, quello solitamente trascurato da occhi troppo grandi e lancette troppo piccole e frettolose.
Perché ero lì, quel giorno?
C’è stato qualcuno, che non ha mai smesso di cercarmi?
C’è forse qualcuno, che non potrò mai più trovare?
E, soprattutto, ero davvero solo, in quell’ultimo istante concessomi?
Quanto tempo è ormai andato, da allora.
Quanto tempo è stato sprecato e quanto ne stiamo gettando ancora con domande senza risposta e prive di valore.
Salvo arrivare tutti, in un modo o nell’altro, alla medesima conclusione: nulla o poco sappiamo di noi e degli altri.
Eppure, ogni giorno, ci ricopriamo a vicenda di discorsi vani.
Tranne, di rado, per sussurrare l’essenziale.
Mi sono perso.
E ora, grazie a te che mi hai ascoltato.
Ci siamo ritrovati entrambi.