Storie di immigrati rifugiati: il gioco delle carte
Storie e Notizie N. 1329
Secondo Iverna McGowan, responsabile dell'ufficio di Amnesty per le relazioni con le istituzioni europee, "l'idea di scambiare rifugiati per rifugiati non è solo pericolosamente disumanizzante, ma non offre una soluzione sostenibile sul lungo termine alla crisi in corso".
Immagina un tavolo.
Un tavolo tondo, guarda, tipo quello dei cavalieri con il re senza macchia e tantomeno paura.
Che si dica.
Si dica e si ricordi che sono coraggiosi e giusti, fino a prova contraria.
Adesso, però, liberiamo un po’ di fantasia. Ovvero, che il galoppo si faccia sentire. In modo da rammentare anche che su questa pagina ci sarà sempre spazio per chi non sia venuto nella foto sul mobile all’ingresso, quella che guardano tutti.
Come i destrieri che si sono affannati, che hanno sofferto e spesso distrutto schiena e zoccoli per la gloria altrui, come il cavallo di Zorro e quello di D’Artagnan, quello di Robin Hood e perfino Tex Willer, che nessuno ricorderà, quando la polvere sarà caduta tutta.
Indi per cui, ricopri il tavolo tondo dei cavalieri e l’intrepido sovrano con un bel panno verde.
Sì, hai capito quale.
Immagina ora i partecipanti alla tenzone seduti tutti intorno con il didietro sul morbido e le esistenze leggere tra le mani.
Ovvero delle carte, carte da gioco, molto particolari.
“Se tu mi dai quattro afgani io ti offro sedici somali”, fa uno.
“Arriva fino a sette e siamo d’accordo”, risponde l’altro.
“Venti eritrei per diciotto dei tuoi libici”, fa un altro ancora.
“Mi dispiace”, ribatte l’interrogato, “ma li ho già promessi.”
“E cosa ti danno in cambio?”
“Dodici cinesi.”
“Avevamo detto dieci…” precisa l’interessato.
“Ora dodici”, rimane fermo l’altro. “Altrimenti mi prendo gli eritrei.”
“Troppo tardi”, fa quello della precedente proposta. “Li ho appena ceduti per sette bengalesi.”
“A chi tocca pescare?” chiede all’improvviso uno dei giocatori.
“A me”, risponde un altro e solleva la prima carta sul mazzo.
“Vittoria!” grida scoprendo la carta davanti a sé.
“Caspita che fortuna”, commenta uno tra i molti con gli occhi sgranati. “Ha trovato il siriano…”
“Chi offre di più?” chiede il concorrente favorito dalla sorte.
E le proposte sfilano squillanti.
Niente da fare.
Il partecipante con la magica carta resiste a ogni attacco e lo stallo blocca la partita.
La noia prende il sopravvento sull’iniziale disappunto e i giocatori, che non hanno alcuna intenzione di rimanere in disaccordo, trovano il modo di continuare.
Così mettono insieme tutte le carte e con esse costruiscono un bel castello.
Grande, imponente, ma fragile.
Incredibilmente fragile.
Come tutte le storie in cui la vita è in gioco.
Ovvero, è un gioco.
Difatti basta che un incolpevole filo di vento raggiunga la costruzione.
Basta che ne cada solo una, di carta.
Non importa quale sia.
E tutto crolla.
Tuttavia, come se nulla fosse, i nostri ricompongono il mazzo.
E ricominciano.
A fare sempre.
Lo stesso maledetto.
Gioco…
Secondo Iverna McGowan, responsabile dell'ufficio di Amnesty per le relazioni con le istituzioni europee, "l'idea di scambiare rifugiati per rifugiati non è solo pericolosamente disumanizzante, ma non offre una soluzione sostenibile sul lungo termine alla crisi in corso".
Immagina un tavolo.
Un tavolo tondo, guarda, tipo quello dei cavalieri con il re senza macchia e tantomeno paura.
Che si dica.
Si dica e si ricordi che sono coraggiosi e giusti, fino a prova contraria.
Adesso, però, liberiamo un po’ di fantasia. Ovvero, che il galoppo si faccia sentire. In modo da rammentare anche che su questa pagina ci sarà sempre spazio per chi non sia venuto nella foto sul mobile all’ingresso, quella che guardano tutti.
Come i destrieri che si sono affannati, che hanno sofferto e spesso distrutto schiena e zoccoli per la gloria altrui, come il cavallo di Zorro e quello di D’Artagnan, quello di Robin Hood e perfino Tex Willer, che nessuno ricorderà, quando la polvere sarà caduta tutta.
Indi per cui, ricopri il tavolo tondo dei cavalieri e l’intrepido sovrano con un bel panno verde.
Sì, hai capito quale.
Immagina ora i partecipanti alla tenzone seduti tutti intorno con il didietro sul morbido e le esistenze leggere tra le mani.
Ovvero delle carte, carte da gioco, molto particolari.
“Se tu mi dai quattro afgani io ti offro sedici somali”, fa uno.
“Arriva fino a sette e siamo d’accordo”, risponde l’altro.
“Venti eritrei per diciotto dei tuoi libici”, fa un altro ancora.
“Mi dispiace”, ribatte l’interrogato, “ma li ho già promessi.”
“E cosa ti danno in cambio?”
“Dodici cinesi.”
“Avevamo detto dieci…” precisa l’interessato.
“Ora dodici”, rimane fermo l’altro. “Altrimenti mi prendo gli eritrei.”
“Troppo tardi”, fa quello della precedente proposta. “Li ho appena ceduti per sette bengalesi.”
“A chi tocca pescare?” chiede all’improvviso uno dei giocatori.
“A me”, risponde un altro e solleva la prima carta sul mazzo.
“Vittoria!” grida scoprendo la carta davanti a sé.
“Caspita che fortuna”, commenta uno tra i molti con gli occhi sgranati. “Ha trovato il siriano…”
“Chi offre di più?” chiede il concorrente favorito dalla sorte.
E le proposte sfilano squillanti.
Niente da fare.
Il partecipante con la magica carta resiste a ogni attacco e lo stallo blocca la partita.
La noia prende il sopravvento sull’iniziale disappunto e i giocatori, che non hanno alcuna intenzione di rimanere in disaccordo, trovano il modo di continuare.
Così mettono insieme tutte le carte e con esse costruiscono un bel castello.
Grande, imponente, ma fragile.
Incredibilmente fragile.
Come tutte le storie in cui la vita è in gioco.
Ovvero, è un gioco.
Difatti basta che un incolpevole filo di vento raggiunga la costruzione.
Basta che ne cada solo una, di carta.
Non importa quale sia.
E tutto crolla.
Tuttavia, come se nulla fosse, i nostri ricompongono il mazzo.
E ricominciano.
A fare sempre.
Lo stesso maledetto.
Gioco…