Storie sulla fame nel mondo: le vittorie di Alì
Storie e Notizie N. 1307
Leggo che un ragazzo di soli sedici anni, identificato come Alì, è morto di fame nella città di Madaya, in Siria, sotto assedio da luglio dell’anno scorso, aggiungendosi alle altre decine di decessi sempre a causa della denutrizione denunciati dalle Nazioni Unite.
Mi chiamo Alì, sono nato all’inizio del terzo millennio e ho, avrò, sedici anni.
Per sempre.
Altrettanto, per ogni giorno a venire, sarò Alì che ha vinto.
Ho iniziato a sconfiggere nemici che farebbero impallidire adulti di ogni luogo, perfino con la voce amplificata dalla sfrontatezza da tastiera e dalla tracotanza da divano, sin da quando ne avevo appena undici.
La guerra è esplosa, a quel tempo, come suo solito.
Sintetizzata e sminuzzata sulla carta con cui incartare il pesce senza nemmeno attendere il dì seguente, quanto sbriciolata e ricomposta all’uopo in immagini e video il cui unico effetto speciale è la verosimiglianza di comodo.
Eppure, la guerra è esplosa e da allora azzanna vita con più o meno cieca furia anche nella mia invisibile esistenza.
Come suo solito.
E’ lì che ho sconfitto la paura, ma è stato solo l’inizio.
Perché l’anno seguente ho affrontato e vinto la solitudine di un mondo dentro un mondo. Dentro un altro e un altro ancora. Che, alla fine della fiera di miseria e ottusità illuminata, è solo uno.
All’alba dei tredici anni mi sono ritrovato circondato da un esercito di assassini tra i più temibili a ogni età. Leggi pure come gli spietati divoratori di speranze.
Hanno urlato sbavanti e danzato tutti insieme, confusi tra loro come un’assordante e sfuggente macchia, vili quali sono, ma non ho mai battuto ciglio. Avanzando, li ho osservati tutti uno per uno, senza abbassare il capo neppure per guardare dove mettessi i piedi.
E’ così che, nell’unico modo possibile, sono arrivato all’anno seguente e ho visto aggirarsi tra noi la più pericolosa delle umane epidemie. Indifferenza è il tuo nome. E a te sono stato immune, ammettilo. Per nome ti ho chiamato e così ti ho scacciato da ogni centimetro della mia pelle. Perché per noi altri, che abbiamo imparato a sopravvivere prima di leggere e far di conto, rimanere indenni innanzi alle cose del mondo è il peggiore tra i peccati.
L’anno scorso è arrivato lento, ma è comunque arrivato e ha portato con sé il signore degli inganni, sotto forma di un micidiale dono incartato da dio. La presunta benedizione di un frammentarsi tra respiri dallo stesso sangue riscaldati. Fratello contro sorella, madre contro padre, io che uccido te e te che, al meglio, vivrai il resto del tuo tempo per uccidere.
Me.
Ho vinto anche stavolta.
Perché le mie mani sono sporche, è vero, e presumo capirete. Polvere e sangue sono ormai particelle fondanti di polpastrelli induriti allo stremo. Ma quel sangue e quella polvere sono miei, nessuno li chiederà indietro, perché a nessuno ho mai pensato di rubarli.
Oggi si è presentato il mio ultimo nemico, la fiera dai mille volti differenti, ma tutti trasfigurati da forze apparentemente inarrestabili.
Fame.
Fame di giustizia e fame di pace, fame di futuro e fame di sorrisi.
Fame di canzoni nei pomeriggi d’estate e di corse al tramonto sino a farsi male il cuore, senza mai ferirlo davvero.
Fame di normalità, più di tutto.
E, udite udite, ho vinto ancora.
Mi chiamo Alì, sono nato all’inizio del duemila e avrò, ho, sedici anni.
Fino alla fine dei giorni.
Vi diranno che sono morto di fame, ma non la diranno tutta.
Perché quanto è vero che l’inedia ha avuto l’ultima parola sul mio conto, il mio epitaffio dice che la fame di cibo, la quale, perfino in questo momento sta falciando vita, non è la mia di sconfitta.
E’ la vostra…
Leggi anche il racconto della settimana: Una giornata sfortunata
Leggi altre storie di guerra
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Leggo che un ragazzo di soli sedici anni, identificato come Alì, è morto di fame nella città di Madaya, in Siria, sotto assedio da luglio dell’anno scorso, aggiungendosi alle altre decine di decessi sempre a causa della denutrizione denunciati dalle Nazioni Unite.
Per sempre.
Altrettanto, per ogni giorno a venire, sarò Alì che ha vinto.
Ho iniziato a sconfiggere nemici che farebbero impallidire adulti di ogni luogo, perfino con la voce amplificata dalla sfrontatezza da tastiera e dalla tracotanza da divano, sin da quando ne avevo appena undici.
La guerra è esplosa, a quel tempo, come suo solito.
Sintetizzata e sminuzzata sulla carta con cui incartare il pesce senza nemmeno attendere il dì seguente, quanto sbriciolata e ricomposta all’uopo in immagini e video il cui unico effetto speciale è la verosimiglianza di comodo.
Eppure, la guerra è esplosa e da allora azzanna vita con più o meno cieca furia anche nella mia invisibile esistenza.
Come suo solito.
E’ lì che ho sconfitto la paura, ma è stato solo l’inizio.
Perché l’anno seguente ho affrontato e vinto la solitudine di un mondo dentro un mondo. Dentro un altro e un altro ancora. Che, alla fine della fiera di miseria e ottusità illuminata, è solo uno.
All’alba dei tredici anni mi sono ritrovato circondato da un esercito di assassini tra i più temibili a ogni età. Leggi pure come gli spietati divoratori di speranze.
Hanno urlato sbavanti e danzato tutti insieme, confusi tra loro come un’assordante e sfuggente macchia, vili quali sono, ma non ho mai battuto ciglio. Avanzando, li ho osservati tutti uno per uno, senza abbassare il capo neppure per guardare dove mettessi i piedi.
E’ così che, nell’unico modo possibile, sono arrivato all’anno seguente e ho visto aggirarsi tra noi la più pericolosa delle umane epidemie. Indifferenza è il tuo nome. E a te sono stato immune, ammettilo. Per nome ti ho chiamato e così ti ho scacciato da ogni centimetro della mia pelle. Perché per noi altri, che abbiamo imparato a sopravvivere prima di leggere e far di conto, rimanere indenni innanzi alle cose del mondo è il peggiore tra i peccati.
L’anno scorso è arrivato lento, ma è comunque arrivato e ha portato con sé il signore degli inganni, sotto forma di un micidiale dono incartato da dio. La presunta benedizione di un frammentarsi tra respiri dallo stesso sangue riscaldati. Fratello contro sorella, madre contro padre, io che uccido te e te che, al meglio, vivrai il resto del tuo tempo per uccidere.
Me.
Ho vinto anche stavolta.
Perché le mie mani sono sporche, è vero, e presumo capirete. Polvere e sangue sono ormai particelle fondanti di polpastrelli induriti allo stremo. Ma quel sangue e quella polvere sono miei, nessuno li chiederà indietro, perché a nessuno ho mai pensato di rubarli.
Oggi si è presentato il mio ultimo nemico, la fiera dai mille volti differenti, ma tutti trasfigurati da forze apparentemente inarrestabili.
Fame.
Fame di giustizia e fame di pace, fame di futuro e fame di sorrisi.
Fame di canzoni nei pomeriggi d’estate e di corse al tramonto sino a farsi male il cuore, senza mai ferirlo davvero.
Fame di normalità, più di tutto.
E, udite udite, ho vinto ancora.
Mi chiamo Alì, sono nato all’inizio del duemila e avrò, ho, sedici anni.
Fino alla fine dei giorni.
Vi diranno che sono morto di fame, ma non la diranno tutta.
Perché quanto è vero che l’inedia ha avuto l’ultima parola sul mio conto, il mio epitaffio dice che la fame di cibo, la quale, perfino in questo momento sta falciando vita, non è la mia di sconfitta.
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