Storie di malati terminali e del gatto che li assiste: la morte secondo Tom
Storie e Notizie N. 1151
Dal giorno della morte del proprietario, un micio di nome Tom vive presso l’ospizio del Centro Medico VA, Unità Per Le Cure Palliative, che si trova a Salem, nel Massachusetts, Stati Uniti.
I dottori hanno deciso da allora di lasciarlo vagare indisturbato nell’ospedale.
Pare che allevii la sofferenza dei degenti.
La morte.
Ma che ne so io della morte?
Sono un gatto.
Ma qualcosa so.
O forse è un’altra che ignoro.
Dov’è finito Edwin?
Chi è Edwin, dite?
E’ l’uomo con cui vivevo.
L’uomo che era lì, nel letto.
Quello nuovo, non l’altro.
Alla vecchia casa.
Quello di questo posto, qui.
Nella nuova.
Era lì, sotto le coperte, silenzioso.
Gli occhi chiusi.
Immobile.
Ma che conta, del resto?
Non è il guardare, la prova dell’esistenza?
Nostra e di tutto ciò che ci circonda.
I rumori della voce e la goffaggine dell’agire sono tasselli inutili nel mosaico vivente.
Perché l’occhio che sa osservare riesce a distinguere l’essenziale dai trascurabili contorni senza le solite prove.
Leggi pure come le sopravvalutate dimostrazioni dei sensi.
Io poi sono un gatto e ci vedo anche al buio, figuratevi quindi quanto possa affidarmi allo sguardo per dare un senso all’orizzonte.
Cosa dite?
Muovere una mano verso la figura ambita?
Sfiorare?
E alla fine toccare?
Ma questa è roba umana.
A noi gatti basta un’occhiata per sposare il mondo.
Con tutte le sue meraviglie.
Magnetici colori e forme uniche.
E una frazione di secondo dopo dimenticarcene come un ridondante intercalare in una frase altrettanto banale.
Per fissare le nostre pupille sull’unico brandello di isola in mezzo ad un arcipelago infinito.
Una preziosa mollica di pane.
Un’ombra figlia del caso.
Un frammento di sole sfuggito all’autunno.
Inezie dell’esistenza.
Esattamente come un vecchio di nome Edwin.
Cosa?
E’ morto, dite?
La morte.
Io sono un gatto.
Ma che ne so io della morte?
E voi?
Siete sicuri di saperne più di me?
Leggi altre storie di animali.
Compra il mio nuovo libro, Roba da bambini, Tempesta Editore.
I dottori hanno deciso da allora di lasciarlo vagare indisturbato nell’ospedale.
Pare che allevii la sofferenza dei degenti.
La morte.
Ma che ne so io della morte?
Sono un gatto.
Ma qualcosa so.
O forse è un’altra che ignoro.
Dov’è finito Edwin?
Chi è Edwin, dite?
E’ l’uomo con cui vivevo.
L’uomo che era lì, nel letto.
Quello nuovo, non l’altro.
Alla vecchia casa.
Quello di questo posto, qui.
Nella nuova.
Era lì, sotto le coperte, silenzioso.
Gli occhi chiusi.
Immobile.
Ma che conta, del resto?
Non è il guardare, la prova dell’esistenza?
Nostra e di tutto ciò che ci circonda.
I rumori della voce e la goffaggine dell’agire sono tasselli inutili nel mosaico vivente.
Perché l’occhio che sa osservare riesce a distinguere l’essenziale dai trascurabili contorni senza le solite prove.
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Io poi sono un gatto e ci vedo anche al buio, figuratevi quindi quanto possa affidarmi allo sguardo per dare un senso all’orizzonte.
Cosa dite?
Muovere una mano verso la figura ambita?
Sfiorare?
E alla fine toccare?
Ma questa è roba umana.
A noi gatti basta un’occhiata per sposare il mondo.
Con tutte le sue meraviglie.
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E una frazione di secondo dopo dimenticarcene come un ridondante intercalare in una frase altrettanto banale.
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Cosa?
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