Storie di razzismo: la barca dei razzisti
Storie e Notizie N. 997
Leggo con tristezza nel cuore che Joele Leotta, un ragazzo di 19 anni di Nibionno, cittadina in provincia di Lecco, è stato aggredito in Inghilterra ed è stato massacrato di botte sino alla morte.
Il motivo? Il giovane, giunto da poco a Maidstone, nel Kent, per imparare l’inglese e migliorare le sue prospettive di vita, secondo i suoi aggressori 'rubava il lavoro'.
Dopo aver lasciato un paese, che a quanto pare, non gliene dava abbastanza, di prospettive.
Come dire, il destino dimostra ancora una volta che per lui non è mai una questione personale, perfino nel medesimo tempo.
E’ indubbiamente equo nello scandire il ritmo dei nostri comportamenti.
Da quelli straordinariamente nobili a quelli disumanamente ottusi.
C’era una volta un dio e un aldilà.
Sì, non posso dire per il resto del mondo, ma in questa storia ci sono entrambi.
Il primo, per facilitarmi il compito, lo possiamo chiamare Manitù.
Puntiamo lontano, così si evitano gratuiti stracciamenti di vesti.
Il secondo, immaginate il paradiso che preferite.
Senza inferni.
Valhalla per tutti.
Si pena già abbastanza in vita, a mio modesto parere.
Mettiamo caso che quello stesso dio e quel medesimo aldilà attendano le sorti di un mondo in buona parte ricoperto dal mare.
E che quest’ultimo sia solcato da una sola nave.
Grande, d’accordo.
Un barcone immenso.
Ma sempre uno.
Figuratevi ora che l’umanità sia divisa in due uniche parti.
Chi è al sicuro, a bordo, e chi annaspa tra le onde.
Non si sa chi sia stato il primo, ma immaginatevi che uno ad uno gli sfortunati che rischiano di perire affogati si arrampichino sulla fiancata della nave e si traggano in salvo salendo a bordo.
Signore e signori, ecco la guerra.
Da quel momento una sola reazione guida le pance e soprattutto i pugni dei passeggeri. Via dalla nostra nave, stranieri. Tornate in mare, non possiamo accogliere tutti, non c’è spazio, noi non siamo razzisti, eccetera, queste sono le parole dell’inno che li accompagna.
Strofe inutili, credo ormai sia evidente anche ai più testardi del pianeta.
Nel mare c’è una sola barca e per coloro i quali l’asciutto rimane l’unica possibilità di sopravvivenza non esiste altra scelta che andare all’arrembaggio.
Così va in scena un solo ed unico spettacolo, una monotona danza sempre uguale, un po’ come gli
Gente che cerca di salire sulla barca e gente che da quest’ultima cerca di rigettarla nei flutti.
Il dramma va avanti finché può e la fine dell’inchiostro giunge inesorabile.
Ovvero, tutti gli abitanti del mondo sono sulla barca, una virulenta massa informe intenta a picchiarsi, a torturarsi, a lottare per ergersi su una cima di corpi avvinghiati nella disperata faida.
E il barcone affonda.
Muoiono tutti, nessuno escluso.
Così, gli umani, quelli di questa storia, si ritrovano nell’aldilà e oltremodo irati si recano dal loro dio.
La sintesi della loro protesta è questa: “Manitù, ma perché hai creato una sola barca? Non hai pensato che sarebbe stata insufficiente per tutti?”
Manitù guarda gli umani perplesso.
“Cari miei”, fa con tono di stupore nella voce, “invece di sprecare il tempo a combattere tra di voi, avreste potuto remare insieme verso l’orizzonte, magari avreste trovato un’isola abbastanza grande per tutti.”
“E se l’isola non c’era?” ribatte uno tra i tanti, interpretando il sentore di molti.
“Dimmi”, replica Manitù, “è andata forse meglio così, scannandovi tra poveri?”
“Ah, dimenticavo”, aggiunge poi indicando un signore distinto e ben vestito, che fa di tutto per confondersi tra la folla. “Nel frattempo, non vi siete accorti che c’era qualcuno che si arricchiva alle vostre spalle mentre voi difendevate la vostra barca.”
La sua, a dire il vero.
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